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8.2.23

tbs - 198

                 

     ::: https://www.forfest.cz/colloquy/732 :::

Forfest XXXIII CZECH REPUBLIC FORFEST FESTIVAL 2022 - International Festival of Contemporary Arts with Spiritual Orientation - held on 27 - 28 June 2022. Biennal of colloquium Spiritual Streams in Contemporary Art with the subtitle: Art at a Time of Pandemic 2022


  Come ho vissuto il periodo del consistente allontanamento  

  dalle mie mani


   O la vita al tempo della pandemia, ovvero una sempre più concreta adesione di spazio e tempo. L'argomento mi tocca e posso scrivere la mia esperienza di malattia, che è stata di scarsa sofferenza e il cui svolgimento ha coinvolto l’arte, il tempo, la pandemia. E se, appena, le culture belligeranti potessero iniziare a intendere da dove viene l’atteggiamento offensivo che mettono in pratica, potremmo avere qualche speranza di evoluzione. Ma no, è un altro piano. Sono consapevole che sempre nuovi eventi si presentano adesso, tuttavia, il virus mi ha morso. Ha provato a farsi me mentre m’indebolivo e mi presentivo sempre più piccola. Mi sostenevo nel modo più impercettibile che potevo per non farmi rivelare. Attraverso i mesi in ospedale e nel centro di riabilitazione ho immaginato, pensato, percepito, sentito in un’unità di desiderio molto densa e generativa. Ho fatto del dialogo interiore il continuo ambito dell’esperienza che stavo vivendo. E prima? Sì, anche prima. È cambiata l’intensità.

   Mi ricordo di un film, visto alla televisione molti anni fa, Johnny Got His Gun, un film di Dalton Trumbo del 1971, tratto da un suo stesso romanzo. Il film, ambientato durante la prima guerra mondiale, narra di un soldato sfigurato nel volto, senza mandibola e naso; mutilato nel corpo, non ha gambe e braccia, ma vivo e cosciente nonostante non sia ritenuto tale, cosicché, viene trasferito in uno sgabuzzino adattato a stanza d’ospedale. Il soldato percepisce, sente, pensa e di questo si accorge un’infermiera, figura toccante, non creduta dai medici e dagli ufficiali che dicevano di lui: è un tronco.

   Ero come questo soldato, ferita in una guerra metaforica combattuta con mezzi virologici anziché meccanici o virtuali, lesionata dai salti di specie ottenuti con la vita messa a reddito.

   Pensavo, immaginavo, percepivo, consideravo senza parole espresse e anche non formulate interiormente. La memoria era viva, tra l’altro ripensavo ai momenti già trascorsi a Kromeriz, a immagini e suoni che mi avevano coinvolta, all’aria limpida che avevo respirato, al Giardino dei Fiori.

Dunque, memoria viva ma gambe, braccia, torso immobili, potevo muovere appena il viso avvolto dalla maschera per l’ossigeno. Il ritmo del respiro non mio, l’alimentazione mediante flebo.

   Vivevo attraverso cavi. Mi facevo sottile, il più possibile, in modo da poter respirare quell’ossigeno che mi veniva erogato, quello e non altro, quella quantità a quel ritmo, altrimenti soffocavo. In quel ritmo trovavo una diversa sillabazione della vita.

   Il farmi così sottile mi permetteva di farmi uno, sentire l’unità dei processi della vita. Non potevo essere impalpabile come il virus, certamente, ma richiamavo una possibilità per provare a entrare nella mia materia, a essere corpo che elabora e considera, apprendendo, frequentando la concretezza e il dinamismo generativo della Ruah, nome semitico del nostro Spirito, femminile nella mia esperienza.

   Facevo tutto questo in emergenza, in cattività, nella limitazione delle azioni, nella situazione di malattia; era quello che avrei fatto, che facevo nelle scritture forse, prima, non pienamente consapevole del suo andamento mentre ora lo ero, e di molti passaggi.

   Cos’era questo farsi spazio dei processi vitali che sentivo direttamente corporei e che andava da quell’organo bianco, che è il cervello, all’esistenza nella memoria, oltre e infra?

Era il mio stesso processo che mi dava vita, quella vita che prima lo alimentava. Era un andamento esperienziale, corporale, un nutrimento, erano movimenti vitali in espressione: la prassi artistica, il pensiero tattile mi restituivano una sapienza corporea, una sapienza che alimentava la  vitalità non per attaccamento ma per una tensione a cogliere e lasciare sempre in memoria.

   I ricordi dell’infanzia, la casa all’angiporto, la collinetta di sfabbricidi, le macerie su cui giocavo, l’odore continuo di mare. Percorrevo strade, realizzavo diversi cammini nei giorni e nelle notti di terapia, tutto questo mi era vicino e separato, direi sacro se sfilaccio questa parola da molte ovvietà. Ora mi rendo conto del continuo riequilibrio che realizzavo nelle posizioni di attesa speranza sapienza, sì, era un’ellisse in incostante equilibrio. Dimenticavo le parole, le sostituivo, le rinnovavo, provavo a ricomporle in una pacificazione che non sapeva di nomi o definizioni ma di estremità, lembi che mi sfioravano e mi rilasciavano la loro realtà. A questo collego il ricordo di quando, per un’installazione, feci un rotolo di carta con i verbi essere conoscere amare scritti congiungendo ogni fine della parola con l’inizio dell’altra perché avevo saputo che, nelle lingue semitiche, c’era una corrispondenza tra di loro e nelle rispettive derivazioni, venendo spesso, usate come sinonimi. I prolungamenti del modo di scrivere i tratti di quelle finali e iniziali erano linee di collegamento, di confluenza che volevo senza dimensioni e ritenevo più importanti delle parole stesse.

   Tutto questo per accennare a una circostanza, per me eccezionale, che mi ha dato un accostamento, denso in vari modi e fatto di tutta le ombre che ora mi permettono di scriverla. Un'esplicitazione di una indagine singolare con la quale vorrei approssimarmi al tema di questo Colloquio e a voi che mi ascoltate.

   Vorrei ricordare Lelio Giannetto, il contrabbassista con cui ho lavorato al video Maria Zambrano Station, insieme a Eva  Geraci, presentato al Forfest del 2011. Era nella stanza accanto alla mia quando ha lasciato una parte della sua vita. Gli dedico questi stralci dal blog Monitulipare, sono sicura che li avrebbe espressi con il suo Contrabbasso Parlante.

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