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Forfest XXXIII CZECH REPUBLIC FORFEST FESTIVAL 2022 - International Festival of Contemporary Arts with Spiritual Orientation - held on 27 - 28 June 2022. Biennal of colloquium Spiritual Streams in Contemporary Art with the subtitle: Art at a Time of Pandemic 2022
Come ho vissuto il periodo del consistente allontanamento
dalle mie mani
O la vita al tempo della
pandemia, ovvero una sempre più concreta adesione di spazio e tempo. L'argomento mi tocca e posso scrivere la mia esperienza di
malattia, che è stata di scarsa sofferenza e il cui svolgimento ha coinvolto l’arte, il
tempo, la pandemia. E se,
appena, le culture belligeranti potessero iniziare a intendere da dove viene
l’atteggiamento offensivo che mettono in pratica, potremmo avere qualche
speranza di evoluzione. Ma no, è un altro piano. Sono consapevole che sempre nuovi eventi si presentano adesso, tuttavia, il virus mi ha morso. Ha provato a farsi me
mentre m’indebolivo e mi presentivo sempre più piccola. Mi sostenevo nel modo
più impercettibile che potevo per non farmi rivelare. Attraverso i mesi in
ospedale e nel centro di riabilitazione ho immaginato, pensato, percepito,
sentito in un’unità di desiderio molto densa e generativa. Ho fatto del dialogo
interiore il continuo ambito dell’esperienza che stavo vivendo. E prima? Sì, anche prima. È cambiata l’intensità.
Mi ricordo di un film, visto alla televisione molti anni fa, Johnny Got
His Gun, un film di Dalton Trumbo del 1971, tratto da un suo stesso
romanzo. Il film, ambientato durante la prima guerra mondiale, narra di un
soldato sfigurato nel volto, senza mandibola e naso; mutilato nel corpo, non ha
gambe e braccia, ma vivo e cosciente nonostante non sia ritenuto tale, cosicché, viene trasferito in uno sgabuzzino adattato a stanza d’ospedale. Il soldato
percepisce, sente, pensa e di questo si accorge un’infermiera, figura toccante, non creduta dai medici e dagli ufficiali che dicevano di lui: è un
tronco.
Ero come questo soldato, ferita in una guerra metaforica combattuta con
mezzi virologici anziché meccanici o virtuali, lesionata dai salti di specie
ottenuti con la vita messa a reddito.
Pensavo, immaginavo, percepivo, consideravo senza parole espresse e
anche non formulate interiormente. La memoria era viva, tra l’altro ripensavo ai momenti già trascorsi a Kromeriz, a immagini e suoni che mi
avevano coinvolta, all’aria limpida che avevo respirato, al Giardino dei Fiori.
Dunque, memoria viva ma gambe,
braccia, torso immobili, potevo muovere appena il viso avvolto dalla maschera
per l’ossigeno. Il ritmo del respiro non mio, l’alimentazione mediante flebo.
Vivevo attraverso cavi. Mi facevo sottile, il più possibile, in modo da poter respirare quell’ossigeno che mi veniva erogato, quello e non altro, quella quantità a quel ritmo, altrimenti soffocavo. In quel ritmo trovavo una diversa sillabazione della vita.
Il farmi così sottile mi permetteva di farmi uno, sentire l’unità dei
processi della vita. Non potevo essere impalpabile come il virus, certamente,
ma richiamavo una possibilità per provare a entrare nella mia materia, a essere
corpo che elabora e considera, apprendendo, frequentando la concretezza e il
dinamismo generativo della Ruah, nome semitico del nostro Spirito, femminile
nella mia esperienza.
Facevo tutto questo in emergenza, in cattività, nella limitazione delle
azioni, nella situazione di malattia; era quello che avrei fatto, che facevo nelle
scritture forse, prima, non pienamente consapevole del suo andamento mentre ora
lo ero, e di molti passaggi.
Cos’era questo farsi spazio dei processi vitali che sentivo direttamente
corporei e che andava da quell’organo bianco, che è il cervello, all’esistenza nella
memoria, oltre e infra?
Era il mio stesso processo che mi dava vita, quella vita che prima lo alimentava. Era un
andamento esperienziale, corporale, un nutrimento, erano movimenti vitali in
espressione: la prassi artistica, il pensiero tattile mi restituivano una
sapienza corporea, una sapienza che alimentava la vitalità non per attaccamento
ma per una tensione a cogliere e lasciare sempre in memoria.
I ricordi dell’infanzia, la casa all’angiporto, la collinetta di
sfabbricidi, le macerie su cui giocavo, l’odore continuo di mare. Percorrevo
strade, realizzavo diversi cammini nei giorni e nelle notti di terapia, tutto
questo mi era vicino e separato, direi sacro se sfilaccio questa parola da
molte ovvietà. Ora mi rendo conto del continuo riequilibrio che realizzavo nelle
posizioni di attesa speranza sapienza, sì, era un’ellisse in incostante
equilibrio. Dimenticavo le parole, le sostituivo, le rinnovavo, provavo a
ricomporle in una pacificazione che non sapeva di nomi o definizioni ma di
estremità, lembi che mi sfioravano e mi rilasciavano la loro realtà. A questo
collego il ricordo di quando, per un’installazione, feci un rotolo di carta con
i verbi essere conoscere amare scritti congiungendo ogni fine della
parola con l’inizio dell’altra perché avevo saputo che, nelle lingue
semitiche, c’era una corrispondenza tra di loro e nelle rispettive derivazioni,
venendo spesso, usate come sinonimi. I prolungamenti del modo di scrivere i
tratti di quelle finali e iniziali erano linee di collegamento, di confluenza
che volevo senza dimensioni e ritenevo più importanti delle parole stesse.
Tutto questo per accennare a una circostanza, per me eccezionale, che mi
ha dato un accostamento, denso in vari modi e fatto di tutta le ombre che ora mi
permettono di scriverla. Un'esplicitazione di una indagine singolare con la
quale vorrei approssimarmi al tema di questo Colloquio e a voi che mi ascoltate.
Vorrei ricordare Lelio Giannetto, il contrabbassista con cui ho lavorato
al video Maria Zambrano Station, insieme a Eva Geraci, presentato al Forfest del 2011. Era
nella stanza accanto alla mia quando ha lasciato una parte della sua vita. Gli
dedico questi stralci dal blog Monitulipare, sono sicura che li avrebbe espressi
con il suo Contrabbasso Parlante.
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